Il festival
Il Festival secondo Raul Montanari
Ci sono parole che hanno fortuna. A volte questo succede solo perché sono eufoniche, perché proviamo piacere nel pronunciarle; oppure il loro significato può essere adattabile, versatile, come certe persone che sopravvivono a tutti i cambiamenti e riescono sempre ad apparire indispensabili. Una di queste parole è “mito”. Pensate quanto è vecchia. Provate a ricordare la prima volta che l’avete sentita o letta: probabilmente è stato sui banchi di scuola, direi verso la quarta o quinta elementare. Eppure questa parola dal sapore antichissimo si è tolta la polvere di dosso e ancora oggi non solo rimane imprescindibile per descrivere certi fatti della cultura di ogni epoca, ma addirittura si diverte a rimbalzare fra i dialoghi dei ragazzi, a fare capriole fra le generazioni, spesso accompagnata da un punto esclamativo: “Sei un mito!”. “Mitico!”.
Mito viene dal greco mythos, e in origine significava semplicemente racconto. I Greci si raccontavano e riraccontavano le imprese di Eracle, le astuzie di Odisseo, le intemperanze grandiose di Achille, gli amori forsennati e impossibili di Zeus, e in questo modo fissavano i tratti di ciò che chiamiamo mito. Raccontare storie è una delle cose che distinguono la nostra specie dagli altri animali che fanno uso di un linguaggio. Non esiste cultura umana che non sia basata sul racconto: tutti hanno raccontato, per esempio, il loro modo di immaginare come è nato il mondo, come si è formato l’universo. La nostra mente ha una vocazione narrativa. Di notte raccontiamo a noi stessi le strane storie perturbanti che chiamiamo sogni.
Vi siete mai chiesti perché non riusciamo a ricordare le cose che ci sono accadute da bambini, e i nostri primi ricordi risalgono di solito ai quattro-cinque anni di età, difficilmente prima? Dove sono andate finire quelle giornate interminabili piene di sorprese, di emozioni, di visioni ancora così lontane dall’afflosciarsi nel grafico piatto della nostra vita di adulti, fatta solo di ripetizioni? Che ne è stato di quella notte in cui una febbre violenta ha rischiato di ucciderci, e i nostri genitori ci hanno portati di corsa in ospedale? E quel bellissimo regalo di Natale di cui tutti, ora, ci dicono che eravamo tanto felici, perché non lo ricordiamo più? La memoria dei bambini non è debole, per nulla; semplicemente, non è ancora organizzata in senso narrativo. A quell’età non vedevamo ancora la nostra vita come una storia, come un romanzo, con i suoi prima, i suoi dopo, i suoi perché, i suoi nonostante. Non eravamo ancora capaci di raccontarci la nostra vita.
E ancora. Cosa ci spaventa più di tutto al mondo? L’imponderabile. Il caos, anagramma di caso. Quello che non possiamo raccontare, perché si sottrae appunto alla logica del prima e del dopo, della causa e dell’effetto. Lo si vede soprattutto nelle situazioni negative. Un parente ha contratto una brutta malattia? Ci informiamo subito sulle sue abitudini, ansiosi di darci una spiegazione – di rassicurarci, raccontando a noi stessi e agli altri che c’è sempre un perché, che se lui non avesse fumato tanto, oppure se avesse curato di più l’alimentazione (grande ossessione dei nostri tempi), se avesse fatto moto, se non avesse preso troppo sole, se non avesse lavorato troppo, dormito troppo poco, parlato troppo al cellulare… insomma, qualcosa di troppo deve aver fatto, un perché deve esserci! Dobbiamo poter raccontare a noi stessi una storia, vedere il film che inizia mostrando questa persona commettere il suo errore o i suoi errori, e poi, ahimé, ecco arrivare la punizione: crudele ma logica, inattesa eppure spiegabile. A volte, lo sapete, perfino lui, il malato che stiamo immaginando, soffre meno se riesce a darsi un perché di ciò che gli sta accadendo. Il nostro bisogno di trasformare ogni esperienza nel capitolo di un romanzo è così forte, che anche quando intravediamo la fine del libro, e sappiamo che ne verremo colpiti in modo fatale, preferiamo comunque questa storia all’idea di una pura, terrificante casualità. Per questo immaginiamo complotti anche quando non ci sono, e intrighi e trame – è questa la parola! – che ci spieghino i misteri grandi e minuscoli delle nostre esistenze.
L’ho fatta lunga, vero? Ma volevo ricordare a tutti noi quanto c’è di essenziale, di sacro, di universalmente umano nell’atto di raccontare storie. Non è un comportamento gratuito: è una necessità esistenziale, biologica.
Tutto questo per dire che quest’anno il nostro festival Presente Prossimo, arrivato alla quinta edizione, vuole ancora testimoniare con il suo calendario e con le sue attività proprio questa fede umana e umanistica nel valore della narrazione.
Il festival è cresciuto di anno in anno ed è diventato una realtà culturale di prima grandezza. In Lombardia è il più importante festival letterario che non si appoggi a una grande città. E’ vero, Bergamo è vicina, ma questo festival appartiene alla Val Seriana, non al capoluogo della provincia. Si snoda lungo la bassa valle, è arrivato già dall’anno scorso ad abbracciare anche Treviglio, e sta in piedi da solo. Questo grazie all’impegno, alla fantasia, alla dedizione dei bibliotecari e di tutti coloro che ci lavorano; ma anche all’illuminata follia di amministrazioni che continuano a finanziare un evento culturale nel momento in cui, per i motivi che tutti sappiamo, la crisi impone tagli a ogni livello – figuriamoci alla cultura!
Chi sono gli ospiti di quest’anno? Nomi che conoscete bene, sia per la loro fama sia perché sono stati citati più e più volte dagli autori che siete venuti ad ascoltare dal 2008 a oggi.
Abbiamo Niccolò Ammaniti, uno degli scrittori che hanno cambiato la faccia alla narrativa italiana a metà degli anni ’90, aprendola a un nuovo pubblico proprio grazie a un lavoro sulla forma, sullo stile, che gli ha permesso di sfrondare tutte le vecchie convenzioni narrative per far arrivare ai lettori nel modo più diretto le sue storie affilate, dense, indimenticabili.
Andrea Bajani, scrittore nodale di una generazione successiva, che ha avuto quasi da solo la capacità di far tornare di moda il romanzo sociale, la narrazione che usa il presente, il lavoro, il precariato, la realtà vera dei rapporti fra le persone non come uno sfondo ma come il motore stesso dei suoi romanzi.
Massimo Carlotto, uno degli autori di noir italiano più amati anche fuori dal nostro paese e uno dei pochissimi dei quali si possa dire che fanno il vero noir: una narrativa d’indagine il cui obiettivo non è mai solo arrivare al cuore della storia con la esse minuscola, quella storia lì con quei personaggi e quella trama e quei colpevoli e quelle vittime, ma illuminare le verità scomode del nostro tempo e del nostro paese.
Barbara Garlaschelli, una delle signore della narrativa italiana degli anni 2000, anche lei nata sotto il segno del noir ma capace di rinnovarsi profondamente e di proporre personaggi e storie in cui far vivere la qualità migliore della scrittura femminile: una sensibilità telepatica, spietata, tagliente, alle relazioni e ai rapporti, alle sfumature rivelatrici.
Piersandro Pallavicini, che appartiene a una categoria di autori che mi hanno sempre affascinato e quasi intimidito: lo scrittore che ha nel suo DNA e nel suo lavoro il tratto insolito di una cultura scientifica, nel suo caso l’essere un ricercatore chimico di valore internazionale, e al tempo stesso un autore così letterario da far sembrare impossibile che una sola vita possa contenere due mondi così lontani.
Vedo già accigliarsi i lettori devoti alla poesia, che due anni fa, quando abbiamo introdotto sperimentalmente in questo festival di narratori uno spazio dedicato all’arte dei versi, hanno tributato ai due autori invitati (Maurizio Cucchi e Milo De Angelis) un’accoglienza così competente e calorosa da convincerci a ripetere l’esperienza nel 2011 con Vivian Lamarque. Questi due incontri sono stati tanto graditi che proprio alla fine della serata con la Lamarque, l’anno scorso, molti lettori mi hanno chiesto di mantenere questo spazio poetico, con toni così appassionati da diventare quasi intimidatori!
Niente paura, amici. La lunga premessa sulla narrativa non era un modo per dire che quest’anno ci saranno solo narratori in prosa. Da Roma verrà a trovarci Patrizia Cavalli, una delle voci più amate della lirica italiana degli ultimi trent’anni e un’autrice capace di raccontare il quotidiano, di narrare attraverso un linguaggio inimitabile oggetti, emozioni, visioni del mondo di tutti. Di trasfigurare in mito, appunto, questa vita che ci è toccata.
Proprio come nelle ultime due edizioni del festival, nella prospettiva di variare il più possibile l’offerta che questo evento fa a chi è interessato a seguirlo, alcuni di questi autori sono stati invitati, nella mattina del giorno stesso degli incontri, a dialogare con gli studenti delle medie superiori di Albino e Gazzaniga. Questa piccola tradizione che si è creata negli anni si è dimostrata una delle occasioni più gradite che il festival regala, gradite non solo agli studenti ma agli autori stessi; molti di loro sono arrivati a dire che l’incursione liceale era stata perfino più emozionante dell’incontro con il pubblico adulto. L’ho già scritto l’anno scorso e lo ripeto: di questo va dato un grande merito ai docenti, che hanno accompagnato i loro studenti alla scoperta della letteratura viva, quella che fiorisce fuori dai nobili ma talora angusti confini dei programmi ministeriali. Non ci sono limiti alla stima che tutti noi abbiamo per questi insegnanti; sono loro una delle cosiddette “eccellenze” del malconcio e bistrattato sistema-Italia.
L’offerta agli studenti liceali non si ferma qui, bensì comprende anche un breve ma sostanzioso corso di scrittura creativa in cinque lezioni, che si terranno a numero chiuso nei sabati in cui sono previsti gli incontri con gli autori. Anche questa formula è già stata sperimentata nelle due edizioni precedenti di Presente Prossimo, con risultati entusiasmanti. Ho visto ragazzi stanchissimi (a buon diritto!) per una settimana trascorsa sulle materie di studio ordinarie affrontare, impavidi e incuriositi, i rudimenti della scrittura narrativa, che, ve lo assicuro, può non essere meno ardua della filosofia teoretica o della trigonometria… e, soprattutto, li ho visti accogliere l’invito a mettersi in gioco personalmente, ciascuno con la scrittura di un racconto. Questi elaborati letterari sono poi sempre finiti in una pubblicazione antologica presentata nella primavera dell’anno successivo, in una serata tutta all’insegna della creatività e delle sorprese.
A dicembre, chi scrive queste righe terrà anche un workshop di scrittura creativa aperto a tutti coloro che vogliono cimentarsi nel grande salto dalla lettura alla scrittura… sempre tenendo presente, non mi stanco di ripeterlo, che la lettura viene prima. Queste proposte si fondano sull’esperienza personale di quattordici anni di insegnamento delle tecniche narrative a Milano, con risultati verificabili in www.raulmontanari.it. Una piccola soddisfazione speciale: oltre alle varie decine di pubblicazioni che allievi usciti da quei corsi milanesi hanno realizzato con i maggiori editori italiani, da Mondadori a Einaudi, un’autrice è stata selezionata quest’anno per il Premio Strega. L’augurio è che lo stesso capiti a uno degli studenti che seguiranno le lezioni del corso di scrittura creativa, o degli adulti che parteciperanno al workshop!